Facevano parte de “Le amiche della miniera” anche le operaie, che a seconda delle esigenze erano indiscriminatamente alternate tra cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina. Non potevano esserci minatrici perché già con la legge 242 del 1902 era stato vietato alle donne di lavorare nelle cave e nelle miniere sotto i 21 anni, divieto di lavoro sotterraneo e notturno esteso a tutte alle donne di qualsiasi età dalla legge 22 del 1934. Lavorando in condizioni del tutto precarie, senza diritti da opporre per la facile eludibilità delle norme legislative e trascurate dalle organizzazioni sindacali, le donne non avevano alcuna forza contrattuale da contrapporre alla Società Montecatini; senza un’adeguata protezione erano esposte alle pressioni e alle coercizioni aziendali. Anche le minorenni venivano impiegate in lavori faticosi e a pari produttività erano pagate la metà delle maggiorenni, già sottopagate rispetto agli uomini. Le operaie vivevano, quindi, in una condizione di reale inferiorità, di subordinazione “istituzionalizzata”. Lo stato di bisogno, poi, le esponeva ai ricatti dell’azienda, pronte a fare qualsiasi tipo di attività, sebbene dura e sottopagata, pur di avere di che vivere; pronte anche a sottostare alla regola non scritta del “fare i favori” alle mogli dei dirigenti; spesso, infatti, le operaie erano costrette, pena una multa con decurtazione dallo stipendio, a fare le domestiche o a prestare servizi gratuitamente.
In genere le operaie provenivano da famiglie bisognose, o per povertà derivante dalla precarietà del lavoro contadino, o per mancanza del capofamiglia; queste ultime in molti casi erano le cosiddette “orfane” o “vedove” della Montecatini, figlie o mogli di invalidi o caduti sul lavoro che la Società assumeva a mo’ di risarcimento per la perdita o l'infortunio invalidante del parente.
Non tutte e non sempre le operaie potevano partecipare agli scioperi e alle manifestazioni. Chi aveva i turni in cucina non si assentava dai propri compiti per scioperare perché la chiusura della mensa avrebbe significato venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia. Stesso discorso per chi si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai. Chi era di turno in lampisteria non poteva assentarsi dal lavoro perché le c.d. “gite”, nel buio delle gallerie, erano comunque obbligatorie per alcune squadre di minatori al fine di salvaguardare la sicurezza degli impianti. Anche le operaie che non potevano partecipare in prima persona agli scioperi, però, riuscirono a ritagliarsi un ruolo nella lotta, organizzando la mobilitazione, distribuendo volantini sul posto di lavoro, facendo propaganda durante i turni.
In genere le operaie provenivano da famiglie bisognose, o per povertà derivante dalla precarietà del lavoro contadino, o per mancanza del capofamiglia; queste ultime in molti casi erano le cosiddette “orfane” o “vedove” della Montecatini, figlie o mogli di invalidi o caduti sul lavoro che la Società assumeva a mo’ di risarcimento per la perdita o l'infortunio invalidante del parente.
Non tutte e non sempre le operaie potevano partecipare agli scioperi e alle manifestazioni. Chi aveva i turni in cucina non si assentava dai propri compiti per scioperare perché la chiusura della mensa avrebbe significato venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia. Stesso discorso per chi si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai. Chi era di turno in lampisteria non poteva assentarsi dal lavoro perché le c.d. “gite”, nel buio delle gallerie, erano comunque obbligatorie per alcune squadre di minatori al fine di salvaguardare la sicurezza degli impianti. Anche le operaie che non potevano partecipare in prima persona agli scioperi, però, riuscirono a ritagliarsi un ruolo nella lotta, organizzando la mobilitazione, distribuendo volantini sul posto di lavoro, facendo propaganda durante i turni.
1-4. Le cucine
5. Distribuzione dei pasti 6-7. La mensa degli operai 8. I "camerotti" (dormitori) degli operai [tutte le immagini sono in: Centro per la cultura d'impresa, fondo Edison, ED ST DV nn. 2471, 2470, 2469, 7391, 2468, 10, 35, 36] |
...gli operai, mangiare bisognava che mangiassero; anche se a lavoro non c’andavano, ma chi c’era bisognava andare lì alla mensa a fargli da mangiare. […] …scioperavano e noi contente sì, ma non si poteva scappà dal lavoro, ma si aderiva agli scioperi, a tutto. […] Perché, in generale, quelli che magari scioperavano erano dei paesi e stavano a casa ma noi ci s’avevano tanti di questi […] che non avevano famiglia. E bisognava assistere quelli. […] Come si faceva noi donne a fare rivendicazioni? Non si poteva scioperare, nel senso che noi si aiutava loro, gli scioperanti, perché poverini quelli che erano fuori di casa bisognava dargli da mangiare! Magari quelle che gli facevano i cameroni, le pulizie… capirà, quelli bisognava pulirli lo stesso!
(Intervista a Orielda Tognoni, Ribolla, 26.01.03) Poi dalla cernita fui passata alle cucine, mi pare, e ci sono stata fino a che mi sono sposata, fino al 1940. […] Aiutavo. C’era la cuoca. Noi s’era quelle che si serviva gli operai, poi si faceva le sguattere, pulizie, piatti, sempre a lavare i piatti perché dalla miniera a tutte le ore uscivano gli operai, quelli che uscivano a mezzogiorno, quelli che uscivano alle tre, sicché s’era sempre in funzione. […] Si lavorava senza orario fisso. Una settimana si entrava la mattina alle cinque fino alla sera alle sette, otto. Una settimana, invece, si faceva le otto ore si entrava alle sette e si usciva alle tre. […]
(Intervista a una signora che vuole rimanere anonima, Ribolla, 11.11.02) |
Io so’ entrata a 15 anni in miniera, alla miniera, alla cernita, dove si sceglieva il carbone. Poi invece di farci scegliere soltanto il carbone e lasciare il coke, quello bello, che spedivano di qua e di là coi vagoni, ci mandarono da bimbe in quel modo con una pala più grossa di noi a caricare i vagoni del treno […] Ventidue tonnellate di carbone in otto ore… due bimbe! Perché a 15 anni siamo du’ bimbe! Se si sbagliava, poi, ci facevano anche la multa! Se lo immagina! Con le gonnelline perché se si portava i pantaloni s’era poco per bene a quei tempi! Sicché sempre con la gonnellina! Picchiava qui il carbone, fino alle gambe, faceva un dolore a volte! Poi siccome io non ce la facevo perché m’era venuto un po’ d’asma, mi mandarono alla lampisteria dove c’era… si cosava le lampade per i minatori… si dovevano caricare… erano lampade… 5 chili pesavano!… si svitavano e si mettevano sotto delle batterie a caricare perché ogni 8 ore c’era il cambio degli operai e ogni operaio c’aveva… non si conoscevano neanche per nome quanto per numero della lampada,… E poi lì era un lavoro pesante, si doveva lavorare anche di notte; si faceva i turni dalle 7 la mattina alle 3 il giorno. Poi c’era il turno dalle 3 alle 11 la sera e poi dalle 11 la sera alla mattina alle 7. Sicché una vita di sacrifici, di stanchezza, di tutto! E quell’acido che si metteva dentro le lampade si respirava! Ci faceva male! [...] Peggio di tutte è stata la cernita perché non ci potevano…non ci portavano rispetto di dire “ma questa è una bimba”; gli uomini prendevano la paga superiore e lavoravano quanto noi. Non era che a noi ci facessero fare lavori semplici… non c’erano lavori semplici, di semplici non c’erano, di poco faticosi non c’erano...c’era un nastro che portava il carbone su e c’era delle donne che lo sceglievano, le più anziane stavano lì e sceglievano; noi bimbe ci mandavano dentro a queste bodole dove andava il carbone che poi di lì andava nei vagoni, quello grosso, così, e dentro a quelle bodole chiuse si scansava il carbone che veniva da questi nastri. Quella era una cosa tremenda, una cosa tremenda, proprio!
(Intervista a Orielda Tognoni, 26.01.03] |
1. La cernita [Centro per la cultura d'impresa, fondo Edison, EDS ST DV 945]
2. La cernita [Archivio digitale Isgrec] 3. Trasporto del materiale [Archivio digitale Isgrec] 4-5. Dispositivi di sicurezza e lampisteria [Centro per la cultura d'impresa, fondo Edison, EDS ST DV nn. 2491 e 977] 6. Carico dei vagoni [Centro per la cultura d'impresa, fondo Edison, EDS ST DV 947] 7-8. Trasporto del materiale [archivio digitale Isgrec] la voce è di Orielda Tognoni (intervista del 26.01.2003) |
Sia al caso delle donne che partecipavano agli scioperi al fianco dei propri padri, fratelli, mariti o colleghi operai, sia a quello delle lavoratrici che rimanevano al loro posto per provvedere alla “cura” degli uomini, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa usata in un primo momento da Anna Bravo (1991) per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’esercito in seguito all’annuncio dell’armistizio, prima, e durante la lotta di Liberazione, poi. Lo stereotipo in base al quale la protezione degli uomini sarebbe stata dovuta a un naturale istinto materno e a una scelta morale più intuita che meditata è stata messa in discussione da un'altra storica, Anna Rossi Doria, che ha messo in luce come nella scelta delle donne di prendere parte al Movimento di Liberazione vi sia stato un passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona». Anche nel caso delle donne di Ribolla la scelta di sostenere gli uomini è stata certamente prima intuita che meditata, ma sarebbe riduttivo inquadrare il loro spirito di solidarietà e di lotta nella categoria del maternage. Appare più convincente dal punto di vista storiografico sostenere che anche qui un passaggio dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona. L'uscita dagli argini del domestico si fece presto consapevolmente politica perché le donne riuscirono a conquistarsi spazi di intervento e partecipazione, che permisero loro di assumere posizioni in quanto soggetti autonomi, sebbene riconosciute ancora per essere mogli, madri e sorelle di minatori.
<<< L'Associazione
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>>> 4 maggio 1954
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