Subito dopo il disastro del 1954, l'opinione pubblica fu compatta nel condannare la Montecatini alle responsabilità per lo scoppio della miniera. Il PCI, la CGIL e gli abitanti di Ribolla puntavano a una soluzione che sancisse non solo la colpa morale ma anche quella giudiziale della Società. Il Sindacato e gli operai rivendicavano la campagna di denuncia della mancata sicurezza in galleria dei mesi precedenti al disastro. La lotta era sì politica, ma era anche finalizzata a ottenere un cospicuo risarcimento per le famiglie delle vittime. Gli obiettivi inizialmente andarono di pari passo, ma la coesione si incrinò presto.
Il movimento femminile era parte di questa battaglia. In alcuni documenti si fa riferimento a “madri e vedove” della Montecatini e ai loro lutti. Erano loro, dopo la tragedia, ad essere al centro dell’attenzione, non più le donne di tutti i minatori.
I primi ritiri delle procure per la costituzione di parte civile al processo contro la Montecatini, le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro, nonché lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un'ampia opera di persuasione nei confronti dei familiari delle vittime. Molte famiglie furono convinte a ritirare la procura dietro risarcimento. Le ultime 5 firmatarie delle procure non si presentarono al processo che prese avvio a Verona nell’ottobre 1958.
La sentenza che seguì, di totale innocenza dei dirigenti della Montecatini, la “mera fatalità” dello scoppio della miniera, fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie - per cui non fu possibile stabilire con certezza né la causa, né il luogo dello scoppio - anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici di Verona, punto decisamente a favore della difesa.
Il movimento femminile era parte di questa battaglia. In alcuni documenti si fa riferimento a “madri e vedove” della Montecatini e ai loro lutti. Erano loro, dopo la tragedia, ad essere al centro dell’attenzione, non più le donne di tutti i minatori.
I primi ritiri delle procure per la costituzione di parte civile al processo contro la Montecatini, le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro, nonché lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un'ampia opera di persuasione nei confronti dei familiari delle vittime. Molte famiglie furono convinte a ritirare la procura dietro risarcimento. Le ultime 5 firmatarie delle procure non si presentarono al processo che prese avvio a Verona nell’ottobre 1958.
La sentenza che seguì, di totale innocenza dei dirigenti della Montecatini, la “mera fatalità” dello scoppio della miniera, fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie - per cui non fu possibile stabilire con certezza né la causa, né il luogo dello scoppio - anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici di Verona, punto decisamente a favore della difesa.
Testimonianze dei familiari delle vittime nel corso dell'Istruttoria [Biblioteca di Follonica, Archivio di Solidarietà democratica]
Anche se uno studio attento e rigoroso di Adolfo Turbanti (2014) dimostra che il ritiro delle ultime procure fu probabilmente se non consigliato, almeno avallato dal PCI, la vicenda segnò una spaccatura profonda all’interno della società ribollina. Da un lato, le cosiddette “vedove della Montecatini” che accettarono il risarcimento della Società; dall’altro, tutti coloro che ritenevano necessario sancire giudizialmente la colpa della Montecatini. Il cedimento “morale” delle vedove fu giudicato da molti come un tradimento politico, come il fallimento di un intero paese che, dopo anni di lotte si era lasciata sfuggire l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità. Non così la pensano gli abitanti di Ribolla a molti anni di distanza dalla vicenda. Oggi la condanna morale di chi accettò la liquidazione della Montecatini è attenuata dalla constatazione dello stato di necessità delle famiglie. La scelta delle "vedove" appare oggi motivata da bisogni impellenti, per soddisfare i quali esse scelsero di perdere la loro posizione sociale e politica all’interno della comunità. Oggi appaiono come il soggetto che dovette farsi carico delle esigenze materiali, della sopravvivenza della famiglia, subordinando a questo anche le ragioni dell'impegno politico che le aveva viste protagoniste gli anni precedenti.
È certo che il PCI, avendo subordinato di fatto il perseguimento del suo originario disegno politico alla difesa concreta degli interessi delle famiglie delle vittime, evitò di operare nei loro confronti una frattura che avrebbe potuto ripercuotersi nella comunità locale con esiti rovinosi. Incomprensioni ovviamente vi furono, ma rimasero all’interno della comunità stessa come qualcosa di non confessato, dal momento che fu fatta ricadere sulle vedove una parte della responsabilità della mancata condanna della Montecatini, per il loro cedimento all’opera di corruzione messa in atto dal “nemico di classe”. Il Partito Comunista si collocò al di sopra di queste contraddizioni e riuscì di fatto a governarle, sposando ufficialmente la tesi della corruzione, ma giustificando ad ogni occasione il comportamento dei “corrotti”, senza mai rivelare pienamente il ruolo che aveva svolto nella vicenda. La sua carta vincente fu in realtà il mutamento del
quadro politico e il miglioramento sostanziale del clima sociale: l’avvento di una situazione in cui la lotta frontale contro i “grandi monopoli” non appariva più di importanza decisiva come nei primi anni cinquanta. Di conseguenza anche la condanna della Montecatini non era più prioritaria, come invece era sembrata nei giorni immediatamente seguenti la tragedia. A. Turbanti, Le carte “Terracini” conservate nella Biblioteca Comunale di Follonica, in I. Tognarini, M. Fiorani (a cura di), Ribolla, una miniera una comunità nel XX secolo. La storia, la tragedia, Polistampa 2005 |
Se lo immagina lei i minatori di Ribolla contro la Montecatini in un processo trasferito per legittima suspicione su a Verona? Quindi si sapeva che la causa era persa. A quel punto gli dissero [alle “vedove della Montecatini”, ndr.] “ma per lo meno prendete qualche soldo”, nel senso che… […] Un’autorizzazione vera e propria no, ma un consenso senz’altro sì perché almeno davano un pezzo di pane ai figli perché senza il padre che lavorava sarebbero stati disastrati. L’ultima che
capitolò fu la moglie di un segretario della commissione interna ma insomma fecero bene a prenderli anche loro… […] qualcosa ci fu, comunque quasi tutte presero i soldi e fecero bene perché ci si sono fatte la pensione, si comprarono un appartamentino a Follonica, hanno dato praticamente un avvenire sicuro ai propri figli, tanto la causa a Verona se lo può immaginare! Nemmeno ora si vincerebbe una causa del genere contro un colosso […] Insomma, le vedove fecero bene. Poverette, ma che dovevano fare? Gli avevano ammazzato il marito… [Intervista a Erino Pippi,18.01.03] |
[in: M. Cipriani, La miniera a memoria, 2004]
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Rispetto alle vedove male male non s’è comportata perché lei [la Montecatini, ndr.] ha fatto il su’ gioco. Gli ha offerto e loro hanno accettato e d’altra parte che dovevano fare? Quelle che non volevano accettà poi da ultimo l’hanno convinte anche i sindacati perché tanto con la Montecatini a fare… come si dice, tanto con la Montecatini non c’era niente da fa’, tanto comandavano loro… […] Hanno fatto bene, ma senz’altro, tanto la causa non veniva vinta perché non veniva fatta nel posto, veniva fatta fuori e pertanto la Montecatini sortiva sempre vincente. Padroni [l’ing.Padroni, direttore della miniera al momento dello scoppio del grisou nel ’54, ndr.] sembrava condannato ma condannato a che? A niente. E pertanto quelli che l’hanno… tanti l’hanno accettati subito o quelli che l’hanno accettati dopo so’state anche consigliate perché tanto… che dovevano fare?
[Intervista a Anna Pippi, 26.01.03] |
…Che poi la Montecatini cominciò a comprare i familiari con i soldi perché quando andava i dirigenti della Montecatini oppure gli incaricati, perché i dirigenti proprio… [...] Andavano a dare le condoglianze ai familiari… però nella mano c’avevano i soldi… che non facessero i processi. Sicché piano piano le famiglie che poi dovevano fare questi processi l’hanno comprate. Dicevano “Ti si mette il figliolo qui, ti si mette il figliolo qua… e se fai il processo poi non hai più niente…” […] Si sono approfittati di questa gente così. E poi alla fine erano rimaste 4 […] e da ultimo gli toccò firmare anche a loro perché sennò non gli avrebbero dato… in 4 contro 44 persone che erano morte… 4 familiari, insomma erano pochi…
[Intervista a Milena Testi, 22.11.02] |
[in: M. Cipriani, La miniera a memoria, 2004]
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La vicenda delle "vedove della Montecatini" segna una sorta di percorso inverso rispetto a quello che aveva portato le donne a lottare a fianco degli uomini e spiegato, almeno in parte, dal maternage: la scelta di non costituirsi parte civile al processo contro la Montecatini riportò la maternità negli argini del domestico, la fece uscire dall’arena pubblica. In realtà a rivelarsi sono la debolezza della loro condizione sociale e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza non solo in termini oggettivi dei compiti di cura e degli affetti.